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Ado Moro, 40 anni fa il rapimento ed il massacro della sua scorta in via Fani a Roma

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Roma – Alle 9.02 del 16 marzo 1978 tutto è compiuto: anche l’attacco al cuore dello Stato. Quaranta anni fa l’Italia è messa sotto scacco: un commando composto da 19 esponenti delle Brigate Rosse rapisce – sotto la sua casa romana in via Fani, all’incrocio con via Stresa – il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Vengono ammazzati i cinque componenti della scorta: il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera. Il tragico evento è un giro di boa della storia italiana: nulla sarà più come prima. In poco meno di una manciata di minuti di spari, precisi e ben direzionati, il gruppo d’assalto preleva Moro facendo poi perdere le tracce.

Il 16 marzo di 40 anni fa non è un giorno qualsiasi: è il giorno in cui il nuovo governo, guidato da Giulio Andreotti, sta per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia. Moro è l’ago della bilancia di un delicato equilibrio: la sua attività politica favorisce l’avvicinamento del Pci che si era astenuto in Parlamento nel 1976 e ’77, sostenendo di fatto il Governo Andreotti, e aveva partecipò all’esperienza dei governi di solidarietà nazionale nel 1978 e nel ’79.

L’omicidio Moro contribuisce fortemente al fallimento di questa stagione politica. Il democristiano immagina la costruzione di percorsi complessi, con tempi lunghi. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico: avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo.

Estese a tutta l’Italia, le ricerche si concentrano però soprattutto su Roma. Dal 16 marzo al 10 maggio, sempre nel territorio urbano della capitale, vengono impiegati 172mila unità tra carabinieri e poliziotti che effettuano 6mila posti di blocco e 7mila perquisizioni domiciliari controllando in totale 167mila persone e 96mila autovetture. Secondo la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, la punta più alta dell’attacco terroristico ha coinciso con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza. Sergio Flamigni, scrittore, parlamentare del Pci e membro della Commissione Moro, afferma: “Le indagini di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze”.

 I partiti reagiscono dividendosi in sostenitori della cosiddetta linea della fermezza e fautori della trattativa con i brigatisti. Per la fermezza si schierano la maggior parte dei partiti: la Dc, Pci, i Liberali, il Psdi e i Repubblicani di Ugo La Malfa. Per la trattativa, i socialisti di Bettino Craxi, i radicali di Marco Pannella e la sinistra non comunista. Entra in questo quadro di forze anche Papa Paolo VI, amico personale di Moro. Memorabile è la sua lettera inviata alla Brigate rosse per chiedere la liberazione di Aldo Moro e il suo grido d’aiuto a Dio durante l’omelia ai funerali del segretario della Dc. “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse – si legge nella lettera rivolta ai terroristi – restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro, uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile”. E ancora: “E vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni”.

 

Moro, per 54 difficili giorni, viene tenuto nella ‘prigione del popolo’ di via Moltalcini, a Roma. Il 9 maggio del 1978 la telefonata di Valerio Morucci annuncia la morte dello statista. Lo scopo dichiarato delle Brigate rosse era generale e rientrava nella loro analisi di quella fase storica: colpire la Dc, “regime democristiano”, emblema dello “Stato imperialista delle multinazionali”. Quanto al Pci, esso rappresentava non tanto il nemico da attaccare quanto un concorrente da battere. Durante il sequestro, nell’appartamento vissero con l’ostaggio Anna Laura Braghetti, l’insospettabile proprietaria, il suo apparente fidanzato che si spacciava come l’ingegnere Luigi Altobelli (che era in realtà il brigatista Germano Maccari), esperto militante romano amico di Morucci, e Prospero Gallinari, brigatista clandestino che, essendo già ricercato, rimase per tutti i giorni del rapimento chiuso dentro l’appartamento e fu carceriere di Moro. Mario Moretti, che viveva in prevalenza in via Gradoli insieme a Barbara Balzerani, si recava quasi tutti i giorni in via Montalcini per interrogare l’ostaggio ed elaborare, in collegamento con gli altri membri del comitato esecutivo, la gestione politica del sequestro. Oggi, dopo 40 anni, il suo ultimo discorso ai parlamentari democristiani il 28 febbraio del ’78 suona profetico: “C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta sino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo”.

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