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Conversazione sul Giorno della Memoria con un bambino

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Oggi è il ventisette gennaio. Non c’è bisogno che controlliate il calendario per saperlo. È il Giorno della Memoria. Saranno la televisione con il suo palinsesto, la scuola, i post sui social, la radio e i giornali a ricordarvelo. Ed è giusto che sia così. Non voglio perdermi in discorsi troppo astratti e teorici per spiegare il perché, soprattutto di questi tempi, sia non solo corretto, ma più che necessario commemorare le vittime della Shoah. Mi limiterò ad accendere il focus della faccenda riportando un esempio molto semplice. Una breve conversazione che pochi giorni fa ho avuto con un bambino di quinta elementare.

Svolgeva i compiti assegnati per casa. Nello specifico leggeva, piuttosto annoiato, un dettato. Una paginetta sull’Olocausto. La classica sintesi per riferire cosa si commemori, cosa e quando storicamente sia accaduto. Qualche numero e fine. Ho aggiunto io a voce qualche informazione. Ho raccontato al bambino il resoconto di alcune testimonianze dei sopravvissuti che negli anni ho ascoltato. Poi il bambino mi ha chiesto il perché dello sterminio. Questo nel dettato non c’era scritto. Ho provato a rispondere parlandogli per grossi capi dei celati interessi economici, delle ideologie malate, dell’esaltazione di massa… Il bambino all’improvviso mi ha interrotto: “Ma perché allora dobbiamo ricordare tutto questo? Non è meglio dimenticare le cose brutte?”.
La domanda mi ha spiazzata. Non avevo mai sentito un’osservazione simile, probabilmente un comprensibile rifiuto dinnanzi alla crudeltà umana.
“Ma no! Dobbiamo ricordare invece!” ho detto. “Affinché cose così brutte non accadano più! Altrimenti, se dimentichiamo, potrebbero ripetersi e noi non vogliamo”.
Al che il bambino, un po’ pensieroso, ha commentato: “Sì, va be’… Ma noi siamo italiani. Non siamo Ebrei. A noi non farebbero nulla”.
Ovviamente il quesito è stato spunto per chiarire che gli Ebrei nei campi di concentramento fossero persone tedesche, italiane e di altre nazionalità europee. Ho rettificato che furono deportati anche i Rom, gli omosessuali, i diversamente abili, gli oppositori politici e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia il punto è che la sua osservazione mi ha fatto male. Molto male. Comprendo perfettamente che dietro a quelle parole ovviamente si celasse il desiderio legittimo e naturale dell’infanzia di ricevere rassicurazione dagli adulti. Eppure mi sono sentita presa a schiaffi perché, a rifletterci bene, lo stesso pensiero è condiviso anche da delle persone adulte.

Eccoci. Spaparanzati sui divani. Arrabbiati con la vita, presi dai mille problemi che affliggono la nostra piccola quotidianità. Il mutuo da pagare, l’insufficienza in matematica, il parente malato da accudire, gli esami rimandati… Eccoci che di fronte a certi argomenti pensiamo: “Fin quando il male non tocca a me, a me che importa? Non voglio sentire “le cose brutte”, le verità scomode… È meglio dimenticare. È meglio voltarsi dall’altra parte. Tanto a me non capita e del prossimo non mi interessa”. Allora mi interrogo: cosa rende l’essere umano egoista? Solo la distanza fisica da certe tematiche e da certi avvenimenti o la paura di esserne vittima? Cosa rende menefreghisti e ripiegati a riccio su noi stessi?

Dobbiamo saperlo. Dobbiamo indagare. Perché alle volte conoscere non basta. Bisogna riflettere sui perché e alle volte nemmeno questo basta. Non basta per sperare che in maniera spontanea germogli negli individui il seme dell’empatia. Perché, con buona pace di Rousseau, l’essere umano tanto buono di natura non è. Certi sentimenti di comprensibile rifiuto, negazione e paura di fronte all’orrore costituiscono il terreno fertile per l’indifferenza, il disinteresse e l’individualismo più pericolosi. La malvagità in questo è spietatamente sibillina. Riesce a farti percepire come ammissibili anche le più gravi bestialità. Si serve di pochi espedienti, quasi sempre gli stessi: l’abitudine, l’insofferenza, la prostrazione… E zac! Quando meno te lo aspetti, hai perso da molto la tua umanità o forse non l’hai mai avuta e nemmeno lo sai. Ma l’empatia può essere trasmessa? Non entro nel merito, ma di certo in questo giorno ai bambini serve tantissimo sapere. Tuttavia le nozioni senza educarli a riconoscersi nell’altro rende la commemorazione sterile. Perché non importa che tu non appartenga ad alcuna minoranza perseguitata o non sia il capro espiatorio di chicchessia. Certe atrocità non devono toccare in sorte a nessuno e basta.

Di Valentina Mazzella

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