Enrico Toti: un nome, una storia. Entrambi poco noti ai più, menzionati di tanto in tanto in qualche remoto trafiletto di un libro di storia particolarmente dettagliato o in qualche saggio scritto ad hoc come “Enrico Toti. Una storia tra mito e realtà” (Persico, 2005) di Lucio Fabi.
Un nome e una storia che oggi vengono spolverati e tornano alla ribalta per essere promotori di un insegnamento di coraggio e determinazione. La vicenda di un giovane con la sola gamba destra che combatte per arruolarsi sul fronte. Un uomo a cui non interessa starsene comodamente a casa esonerato dalla guerra. Non vuole essere da meno degli altri e per amore per la patria decide lo stesso di partire per la trincea.
Non è un racconto riesumato dalle pagine del libro Cuore, sebbene contenga la medesima carica del piccolo tamburino sardo. È una storia vera, sicuramente di altri tempi. Siamo nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, quando patriottismo non significava semplicemente guardare la partita di calcio degli Azzurri ai Mondiali o agli Europei. L’Italia chiamava alle armi e il 25enne romano Enrico Toti non aveva esitato a farsi avanti. Non interessa in questa sede discutere dei meriti militari o della medaglia al valore che quest’uomo ha poi ricevuto da Vittorio Emanuele III in persona. La sua grandezza non risiede tanto nella lotta contro le truppe austro-ungariche quanto nella sua lotta contro gli ostacoli che la vita avversa aveva riservato per lui. Molti anni addietro aveva perso la gamba sinistra in un incidente sul lavoro presso la stazione di Colleferro. L’arto gli era stato amputato fin quasi al bacino, ma non si era perso d’animo e aveva investito le sue energie nello sport. Per sfida e per passione, praticava nuoto e ciclismo. Da solo aveva messo appunto una bicicletta con un unico pedale e sul sediolino di questa viaggiò in Europa e in Africa. In un’epoca in cui ancora non esistevano protesi in fibra di carbonio, Enrico Toti calzò tranquillamente il ruolo di precursore degli odierni atleti delle Paralimpiadi.
Durante la Grande Guerra si era prestato allo svolgimento di svariate mansioni di falegnameria, cucina e consegna della posta come volontario civile. Indossava pertanto una divisa priva delle stellette che contraddistinguevano i soldati ordinari. Aveva perciò implorato il duca d’Aosta, cugino del re e comandante della Terza Armata, di inserirlo in qualche reparto. Alla fine raggiunse il suo scopo e divenne bersagliere ciclista, ma questa vita di fierezza trovò epilogo presto presso Monfalcone proprio il 6 agosto del 1916 a causa di un proiettile austro-ungarico. La tradizione vuole che a quel punto Enrico Toti, in un ultimo moto di orgoglio, caduto per terra, abbia scagliato la sua stampella contro i nemici urlando in romanesco: “Nun moio io!”.
Insomma, un eroe moderno con una forza diversa da quelle di Ercole o di Captain America. Una forza che non va dimenticata, ma celebrata e presa ad esempio. Così oggi, a distanza di cento anni, rammentiamo questo personaggio storico dalla grande tempra. E se neanche una settimana fa è dilagata la notizia di un cliente che aveva lamentato l’eccessiva presenza di diversamente abili presso la struttura vacanziera presso cui alloggiava, in questo giorno la speranza è che l’eroismo, l’audacia e la perseveranza di Enrico Toti trasmettano un messaggio di accettazione delle disabilità alle nuove generazioni. In fondo non sono la prestanza e il vigore fisico a rendere un uomo tale, ma il suo spessore umano, la sensibilità, la dignità e il valore che attribuisce alla vita propria e altrui.
Di Valentina Mazzella