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Madri che uccidono i figli: da Elena Del Pozzo alla piccola Diana. Dov’erano gli assistenti sociali e le istituzioni?

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“Segua la cronaca. Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche se stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto e va dal parrucchiere”: è una frase di Oriana Fallaci che è possibile leggere in “Fallaci intervista sé stessa. L’apocalisse” (2004), il terzo e ultimo volume della trilogia composta anche da “La Rabbia e l’Orgoglio” (2001) e “La Forza della Ragione” (2004). Parole crude che evocano uno scenario da brividi, una realtà a cui non si vuol credere. Una madre che ammazza la sua creatura senza alcun rimorso appare una possibilità fuori da ogni concezione umana. Eppure la storia insegna. Come spiegava la Fallaci, i casi di cronaca dimostrano: è un’eventualità che può verificarsi. Orribile, ma non di fantasia.

Lo testimonia anche una tragica notizia della settimana scorsa, il decesso della piccola Diana di soli diciotto mesi. La madre, Alessia Pifferi (36 anni), ha lasciato la bimba da sola in casa per sei giorni con accanto solo un biberon e un flacone di benzodiazepine mezzo vuoto (degli ansiolitici). Al rientro ha trovato la figlia morta. È successo a Milano. La donna era stata dal suo partner a Leffe, in provincia di Bergamo. L’episodio ha attirato notevole attenzione mediatica soprattutto perché Alessia Pifferi non ha manifestato stupore o rimorso. Non ha neanche provato a mentire agli inquirenti per evitare la pena. Da una prima ricostruzione parrebbe che abbia abbandonato la piccola Diana a se stessa intenzionalmente. Era consapevole dei rischi a cui esponeva la bambina. Tuttavia ha preferito ugualmente partire per una vacanza con l’attuale compagno. L’uomo nel frattempo era ignaro di tutto. A lui Alessia aveva detto di aver lasciato la figlia con la nonna o una babysitter.

Diana, invece, era da sola ed è morta di stenti. Chiusa in casa senza cibo e acqua per una settimana. Nel raccontare i fatti l’atteggiamento di Alessia è apparso alla Procura spesso freddo e distaccato. Il pm ha scritto in proposito: “È evidente che si tratti di un soggetto incapace di controllare i propri impulsi e con una soglia di valori assai bassa. Perciò solo in grado di porre in essere condotte produttive di effetti deleteri per l’incolumità degli altri, specie dei soggetti più indifesi”. Anche l’accusa sostiene che “si tratta di una persona priva di scrupoli e capace di commettere qualunque atrocità (perché tale è il comportamento tenuto dall’indagata) pur di assecondare i propri bisogni personali legati alla necessità di intrattenere, a qualunque costo, relazione sentimentali e amorose con gli uomini” (fonte: “Avvenire”).

Non era nemmeno la prima volta che Alessia lasciava Diana da sola a casa. L’aveva già fatto in occasione di weekend di vacanza. Al momento la donna è indagata per omicidio volontario pluriaggravato. Sicuramente il caso chiederà una perizia psichiatrica più approfondita. L’infanticidio non è escluso dalla storia dell’umanità fin dalle epoche più antiche: compare nella società greco-ellenistica e in quella romana; addirittura nel mondo giudaico. Meditando anche solo sugli ultimi vent’anni affiorano alla mente diversi casi di cronaca di madri indagate per infanticidio. Tra le protagoniste che maggiormente sono state sotto i riflettori ricordiamo Anna Maria Franzoni del delitto di Cogne e Veronica Panarello, la mamma di Loris. Lo scorso mese, invece, ha scosso gli animi la morte di Elena Del Pozzo, di soli 5 anni, presso Mascalucia (in provincia di Catania). La bambina è stata uccisa con undici coltellate. La madre, Martina Patti, l’ha colpita con premeditazione, intenzionalmente. Voleva vendicarsi. Desiderava far ricadere i sospetti sull’ex-compagno. Lo scopo era punire il padre per aver presentato a Elena la nuova fidanzata.

Naturalmente ogni storia è diversa. Ogni fatto di cronaca è a sé. Ogni vicenda ha le proprie dinamiche e peculiarità. Ogni madre aveva il proprio vissuto e il proprio movente. Potremmo aggiungere: ognuna di queste donne aveva delle problematiche differenti. Eppure il dramma consumato alla fine è sempre lo stesso, il dolore collettivo per una vita spezzata ingiustamente. Pertanto sorgono spontanee delle riflessioni in merito. In primis: quale dovrebbe essere il reale peso di un’eventuale diagnosi di infermità mentale sul piano giuridico? Alle volte, da un’attenta e onesta perizia, emerge la presenza innegabile di disturbi. In quale misura l’infermità mentale può essere considerata un’attenuante e quanto, invece, soppesata come un’aggravante? Spesso certe instabilità sono strettamente concatenate alla pericolosità sociale dei soggetti e la recidività non appare una chimera. Un delicato percorso psicologico o addirittura il trattamento sanitario obbligatorio restano strumenti fondamentali nel rispetto della dignità umana. Ciononostante l’opinione pubblica è sempre molto divisa sul tema e non sempre sposa le indicazioni formulate dal Codice Penale.

Il secondo interrogativo riguarda la responsabilità delle istituzioni e quella sociale della collettività. In questi giorni sono stati resi noti molteplici dettagli della vita di Alessia Pifferi e della sua maternità. Parrebbe che la piccola Diana sia stata partorita nel bagno di casa senza alcuna assistenza medica. La bambina in passato – emerge – era già stata ricoverata in altre occasioni in seguito al comportamento scellerato della madre. Alla luce di ciò: possibile che una bimba di diciotto mesi non venisse regolarmente controllata da un pediatra? È fattibile credere che non fosse interesse di Alessia Pifferi portare la figlia in visita dato che – dalle ricostruzioni – sceglieva di vivere come se Diana non esistesse. Ma al di là delle volontà della madre, possibile che nessuna istituzione abbia ritenuto opportune delle verifiche dopo evidenti avvisaglie annotate anche burocraticamente? 

Potremmo in breve domandare: dov’era lo Stato? Dov’erano gli assistenti sociali? Una qualche forma di iter non si sarebbe dovuto aprire già in occasione degli episodi summenzionati? Gli assistenti sociali – certo – non possono agire per conto proprio in autonomia. Le indagini e un loro intervento necessitano sempre alle spalle di alcune segnalazioni, imprescindibili per aprire una sorta di fascicolo. Davvero i precedenti ricoveri della bambina e lo stesso esser nata in circostanze non comuni non avevano smosso e attivato alcunché?

E infine c’è la responsabilità sociale: nessuno si era accorto di quanto accadeva? Dalle prime ricostruzioni degli investigatori emergerebbe che molti vicini siano d’accordo nel giudicare da sempre Alessia Pifferi – almeno in pubblico – una madre fredda e distaccata. I conoscenti della donna confermerebbero l’impressione, riportando commenti anche sulla condotta di Alessia in circostanze più domestiche. Diana era particolarmente magra e non piangeva mai, aspetto che oggi induce a ipotizzare che la madre già le somministrasse ansiolitici per calmarla. Alessia era solita sgridare la bambina più del dovuto e con eccessiva veemenza per delle banalità. Aveva addirittura mentito a tutti organizzando in passato un finto Battesimo – senza sacramento e senza festa – per scroccare soldi. Eppure nessuno ha segnalato mai nulla. Forse una telefonata ai carabinieri per contattare gli assistenti sociali avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi.

C’è dunque bisogno di liberare i servizi sociali, l’assistenza domiciliare e l’affiancamento educativo dello stigma sociale di cui godono e comprendere la loro importanza come di strumenti di aiuto e supporto per le famiglie in difficoltà. C’è l’esigenza di immaginare che l’intervento di chiunque, oggi o domani, potrebbe fare la differenza in situazioni analoghe. C’è la necessità di riscoprire il vivere in società prestando maggiore attenzione al prossimo, anche quando la vita ci costringe alla frenesia del quotidiano.

Di Valentina Mazzella

 

 

 

 

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