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“Mare Fuori”: la serie TV che promuove la speranza

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RECENSIONE – Il mare. Il mare di Napoli. Il mare contemplato attraverso le sbarre delle finestre di Nisida. È proprio lui il veicolo del grande messaggio di speranza e riscatto promosso da “Mare Fuori”, la serie televisiva italiana trasmessa dal 23 settembre ogni mercoledì su RaiDue. La fiction, guidata dalla regia di Carmine Elia, è ambientata infatti presso l’Istituto di Pena Minorile della città partenopea in cui sono detenuti ragazzi e ragazze che hanno commesso dei reati prima del raggiungimento della maggiore età. Al pubblico viene proposto un intreccio di storie molto diverse fra loro, ognuna delle quali sposa un  particolare argomento di attualità. Il ventaglio delle tematiche affrontate non si fossilizza esclusivamente sul problema della criminalità minorile da strada e quello delle influenze territoriali della camorra. La serie racconta infatti anche della violenza domestica in famiglia, dello stalking e del femminicidio, della tossicodipendenza, dell’autolesionismo e dell’uso irresponsabile dei social fra i più giovani. I protagonisti sono pur sempre degli adolescenti, motivo per cui “Mare Fuori” appare in primis essere una serie di formazione. Pertanto sterili sono le critiche di quanti, con tono polemico, l’hanno additata come l’ennesima fiction sulla scia di “Gomorra”, ingiuriando inoltre che sia un prodotto infangante per la reputazione della città. Sebbene non manchino scene di scippi, spaccio, furti e vera criminalità organizzata, “Mare fuori” non sceglie Napoli come location unicamente per gli spunti narrativi che offre, ma anche per la suggestione scenografica dei suoi panorami e per la teatralità della sua gente.

I conflitti genitori-figli, le disparità sociali ed economiche, la discriminazione etnica, le prime cotte e i primi amori, i sogni infranti, la maternità, la pedagogia, il valore della famiglia e dell’amicizia sono problematiche universali che in contesti diversi e dimensioni ridotte magari molti spettatori possono aver sperimentato sulla propria pelle. Al di là di ciò ogni storia in “Mare fuori” scuote le coscienze sollevando dilemmi etici. Niente è banalmente solo nero o solo bianco. Divorato dal dubbio, la fiction costringe il pubblico a riflettere e a interrogarsi. In preda a un confuso discernimento fra cosa sia giusto o sbagliato fare, lo spettatore si immedesima nei personaggi e si domanda cosa avrebbe fatto nei loro panni in situazioni analoghe.

La sceneggiatura di Cristiana Farina e Maurizio Careddu è scritta egregiamente. Con tempi accattivanti, le dosi giuste di drammaticità e azione e la suspense inserita nei momenti più opportuni, riesce a catturare l’attenzione per tutta la durata degli episodi. In realtà ci sono alcune scelte narrative abbastanza discutibili. Parliamo di determinati espediente che risultano poco credibili, necessari solo per forzare lo svolgimento delle vicende. Ad esempio la mancata assistenza psicologica per i detenuti con evidenti problemi di tossicodipendenza (Serena) e problemi di personalità dissociate (Viola) o l’inesistenza degli assistenti sociali in tante situazioni. Tuttavia “Mare Fuori” propone trame così coinvolgenti e dall’impatto emotivo così grande che alla fine si perdona alla serie anche qualche strafalcione. Accurata in generale è invece l’analisi sociologica delle dinamiche criminali del tessuto camorristico e del pessimo codice non scritto da cui derivano. Molto cruda la narrazione della violenza fisica, degli abusi e dei rapporti tossici basati unicamente sulla prevaricazione, il potere e la paura principalmente nel reparto maschile. Altrettanto inquietante la messa in scena della violenza psicologica, delle relazioni costruite su istigazione e manipolazione fra le ragazze.

Fiore all’occhiello sono sicuramente le musiche: non solo l’eccezionale sigla di apertura “Mare Fuori” (feat Icaro, Lolloflow, Raiz), ma anche le altre canzoni che fanno da sottofondo alle sequenze più toccanti.
Il cast è notevole, soprattutto considerando la giovane età e la poca esperienza di molti attori. I personaggi portano sullo schermo le movenze, gli atteggiamenti e le espressioni colorite tipiche di certi contesti di degrado sociale dei quartieri più critici. Convince poco l’accento napoletano della romanissima Valentina Romani nel ruolo di Naditza, eppure la sua interpretazione è così ricca di passione che non si può fare a meno di amarla lo stesso. In egual modo le fragilità di Filippo, il desiderio di Carmine di proteggere sempre gli altri, il legame paterno del Comandante con Carmine in cui rivede se stesso da ragazzo, la spensieratezza immatura di Edoardo, la sensibilità di Cardiotrap, il desiderio di affetto mal manifestato e inappagato di Pino e degli altri detenuti o l’apparente durezza della Direttrice sono tutti elementi che entrano nel cuore. Pertanto attendiamo sicuramente la seconda stagione perché molte storylines sono state lasciate in sospeso. L’evoluzione di molti personaggi non è stata completata e il finale apre le porte a nuovi scenari di speranza. Speranza che molti di loro imparino dagli errori, comprendano le proprie colpe perché in fondo, come di frequente il Comandante ripete nel corso delle puntate, lo scopo dell’Istituto di Pena Minorile è quello di salvare i ragazzi, non semplicemente di punirli. E le coscienze si salvano scuotendo gli animi, ricordando a ogni cuore che per il futuro esistono delle alternative, alternative costruite sull’amore e l’onestà.

Di Valentina Mazzella

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