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Scienze dell’Educazione chiede l’accesso alla fascia dai 3 ai 6 anni: intervista a un’educatrice che ha firmato la petizione

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Per quanto possa sembrare un luogo comune ribadire l’ovvio, negli ultimi vent’anni la strada per chi desidera insegnare è diventata sempre più impervia. E lo dimostra, fra le tantissime cose, l’esigenza di dar vita a una petizione come quella che in questi giorni è attiva sulla piattaforma “Change.org battezzata “Accesso educatori indirizzo infanzia al 3-6 previo corso o esame integrativo senza test”. L’obiettivo prefissato è il raggiungimento delle cinquemila firme, al momento davvero vicino.

Per spiegare quale sia lo scopo di questa iniziativa, è forse opportuno un breve riepilogo dell’attuale ordinamento delle cose. Senza addentrarci eccessivamente nei cavillosissimi dettagli legali, basti sapere che un paio di anni fa il Miur ha pubblicato il DM n. 378/2018 con cui si disciplina il corso di specializzazione per i laureati in Scienze della Formazione Primaria indirizzo infanzia e in Scienze della Formazione Primaria classe LM-85bis (una laurea magistrale a ciclo unico). Ciò per favorire l’accesso alla professione di educatore dei servizi educativi per l’infanzia nell’ambito del Sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, come istituito dal D.lgs. n. 65/2017, in attuazione di quanto previsto dalla legge 107/2015.

Ciò significa che ai laureati in Scienze della Formazione Primaria, tramite la frequenza di un corso integrativo, è concesso di lavorare con i bambini da 0 a 3 anni. Si tratta della fascia di età di cui di norma si occupano i laureati alla triennale in Scienze dell’Educazione, in particolare con indirizzo “Educatore di Nido e Servizi per l’infanzia”, a cui è invece preclusa la possibilità di insegnare ai bambini dai 3 ai 6 anni. Considerando il percorso accademico che fornisce preparazione e competenze pedagogiche, con la summenzionata petizione gli educatori chiedono oggi una modifica nel sistema. Si fa innanzitutto appello al valore della continuità educativa per i bambini dalla nascita ai sei anni e si fa richiesta di nuove soluzioni che concedano anche ai laureati in Scienze dell’Educazione l’accesso alla fascia dai 3 ai 6 anni. Il ventaglio delle proposte è ampio: potrebbe essere data loro l’opportunità di frequentare dei corsi integrativi con tirocinio oppure potrebbe essere creata una nuova magistrale con un piano di studio elaborato ad hoc.

L’argomento purtroppo sembra passare abbastanza in sordina anche fra i grandi media. Per approfondire però noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare la testimonianza di un’educatrice che gentilmente ci ha raccontato la sua esperienza. Si chiama Roberta Morabito ed è laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione. Ha lavorato in Italia, nel partenopeo, e da due anni vive a Stoccarda. Roberta ha risposto a delle nostre domande scegliendo coraggiosamente di mettere a nudo le proprie motivazioni.

– Qual è il tuo percorso di studi?
«Sono laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione L19, senza indirizzo specifico. Ho sostenuto principalmente esami di pedagogia, psicologia e di dattica generale e speciale. Inoltre nel mio percorso di studio all’università ho dato esami inerenti alla valutazione, alla stesura di un piano offerta formativa, di storia, sociologia, filosofia, etica e affini. Quindi la mia è stata una formazione umanistica che reputo veramente molto vasta e significativa. Ho svolto esami di chimica, biochimica, fisiologia del movimento, igiene e neuropsichiatria infantile che mi hanno permesso di ampliare la mia cultura anche da un punto di vista scientifico.
L’argomento della mia tesi, elaborata in psicologia generale, è stato “Prevenire il pregiudizio”: ovvero un’analisi sull’insorgere del pregiudizio fino a giungere a interventi educativi non per eliminarlo del tutto, essendo necessario, ma per evitare che esso diventi un ostacolo per l’inclusione. Ora sto studiando per conseguire una laurea magistrale in Linguistica Moderna».

– Perché hai scelto di firmare questa petizione?
«Non solo ho scelto di firmare, ma sono stata anche una grande sostenitrice. Il mio ruolo professionale è un ruolo fittizio che l’Italia non reputa essenziale. Chi è l’educatore? L’educatore ha tre ruoli specifici: quello di promozione, prevenzione e riabilitazione. Naturalmente potrei parlare all’infinito di questo, ma mi limito a dire che non c’è un posto nel mondo per noi. O meglio c’è, ma non è rispettato né dal punto di vista di figura professionale né dal punto di vista remunerativo. Naturalmente mi riferisco al contesto italiano. Gli educatori possono lavorare nei nidi attraverso le cooperative che spesso ci assumono non considerando la laurea. Possono lavorare nelle comunità dove però a volte potremmo trovarci a svolgere mansioni di pulizie per 600 euro al mese piuttosto che il ruolo di educatore… Parlo di esperienze personali. Possono fare tante cose, ma sono facilmente sostituibili. Gli educatori hanno modo di accedere a delle specialistiche per diventare figure professionali che in Italia non sono per niente considerate, se non in rarissimi casi. Per esempio non abbiamo un albo. La mia domanda è: perché dopo tre anni di studio non è possibile continuare il nostro percorso per accedere a una magistrale che ci permetta di insegnare ai 3-6 com’è concesso ai laureati in Scienze della Formazione Primaria che con 60 CFU in più possono lavorare con la fascia 0-3? Mi sembra totalmente assurdo soprattutto perché io non ho studiato Medicina, Informatica o Architettura, ma Educazione».

– Sappiamo che hai lavorato come educatrice in Italia e che poi a un certo punto ti sei trasferita in Germania. Ti va di parlarci innanzitutto della tua esperienza professionale nello stivale?
«In italia ho lavorato tanti anni. Ho iniziato la mia esperienza in una ludoteca. Ho lavorato poi in scuole paritarie, fino alla mia ultima esperienza in un centro educativo con minori di età compresa fra i 6 e i 18 anni. Tutte esperienze affini, ma nel complesso tutte diverse perché il lavoro dell’educatore non è mai lo stesso: devi sempre trovare nuove strategie, cambiare metodo, metterti in discussione. Ogni bambino/ragazzo che hai di fronte è diverso e ha bisogno di cose, metodi, linguaggi differenti. Io dico sempre che non lavoro con gli oggetti, ma lavoro con le anime e ho una responsabilità che mi porto dietro non solo in classe, a scuola, al nido, davanti a un libro. Questa responsabilità me la porto a casa e durante il corso di tutta la mia vita. Questa responsabilità è sempre con me e influenza la mia vita. La nascita di questa responsabilità può verificarsi solo c’è una forte passione alla base, ma mi dispiace: la passione non basta. Il mio è un lavoro a tutti gli effetti. È un lavoro fatto di ricerca continua. Quando mi sono ritrovata a ventisettenne anni a lavorare tanto e a subire le conseguenze di questa responsabilità, senza che ciò permettesse di pagare un affitto, avere un’indipendenza economica e in più senza essere riconosciuta come figura professionale, ho deciso di andare via».

– Quando e perché hai scelto poi di sperimentare l’estero? Il sistema scolastico tedesco ha soddisfatto le tue aspettative lavorative? Raccontaci.
«Ho fatto così un colloquio presso un asilo tedesco per la fascia 0-6 e sono partita. Qui in Germania e in quasi tutti i paesi europei la figura dell’educatore ricopre le età da 0 a 6 anni. Ho seguito un corso di tedesco (pagato dal mio datore di lavoro) e dopo quattro mesi ho iniziato a lavorare, a guadagnare e soprattutto a essere riconosciuta come figura professionale. Ed ora sono qui da due anni. È normale, non vorrei essere qui e ho un nodo alla gola ogni volta che ci penso. Vorrei essere in Italia, lavorare nella mia lingua e poter nel mio piccolo contribuire nel MIO Paese da cui – ci tengo a precisare! – non sono scappata. Sono stata metaforicamente cacciata e ignorata. Per sdrammatizzare vorrei dire che qui i bambini sono uguali, anche se hanno nomi strani e chiamano gli oggetti diversamente. Psicologicamente e fisiologicamente sono perfettamente come quelli italiani, hanno lo stesso splendore e attraversano le stesse fasi di sviluppo di quelli italiani. Allora a volte mi chiedo: se l’Italia non mi reputa all’altezza di lavorare con i 3-6, starò forse facendo un danno con la mia “non preparazione” a questi bambini? Naturalmente sono ironica».

– Quali sono le principali differenze nella scuola della fascia 0-6 fra l’Italia e la Germania? Secondo te quali aspetti del modello estero potrebbero essere fonte di ispirazione per la scuola italiana?
«La differenza sostanziale a livello burocratico è che in Germania fino ai sei anni i bambini sono seguiti dagli educatori e non c’è una separazione fra i 0-3 e i 3-6. Qui esiste un ciclo unico da zero a sei anni. Ritengo che un punto di forza del ciclo unico sia proprio il fatto che i bambini non vengono sballottolati da una scuola all’altra. Fino ai sei anni crescono con persone che conoscono tutto di loro e con cui instaurano rapporti di fiducia e legami veramente forti. Per il bambino il “kita” (in italiano “l’asilo nido”) diventa una seconda casa dove riesce a essere realmente se stesso perché non deve sempre ricominciare da capo. In esso ha il tempo di creare una sua identità senza subire cambiamenti che talvolta possono essere deleteri».

– Cosa proporresti per estendere la formazione della figura dell’educatore nel nostro sistema?
«A questa domanda vorrei rispondere a nome di tutte. Se l’Italia non ci reputa in grando di lavorare con un’età maggiore dei tre anni, deve darci l’opportunità di frequentare una laurea magistrale o di sostenere esami integrativi che permettano di raggiungere le competenze che lo Stato ritiene non abbiamo ancora acquisito. Ripeto, non siamo architetti che chiedono di insegnare. Anche se poi è possibile che un architetto diventi insegnante di sostegno, per esempio… Siamo educatori che hanno studiato e hanno determinate competenze in questo medesimo campo e che adesso vogliono continuare a migliorarsi e completarsi. Come è stata data la possibilità ai laureati in Scienze della Formazione Primaria di ampliare la propria preparazione accumulando 60 CFU per poter accedere alla fascia 0-3, noi laureati in Scienze dell’Educazione vogliamo fare lo stesso per lavorare con l’età 3-6».

Ringraziamo di cuore Roberta per la sua condivisione perché le sue parole ricordano a tutti che dietro ai grandi numeri delle petizioni esistono persone vere con storie di impegno e sacrificio alle spalle, persone con progetti, sogni e aspirazioni nel cassetto. E in un Paese fondato sul lavoro è assolutamente legittimo che, con cognizione di causa come nella richiesta, lo Stato presti attenzione alle esigenze di tutti e aiuti ognuno a inseguire e realizzare le proprie ambizioni con la dignità e la qualità di cui il futuro necessita.

Di Valentina Mazzella

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