Per comprendere l’approccio di Mario Vespasiani alla musica, è necessario liberarsi dalle categorie tradizionali. Egli non è un “cantante” o un “musicista” nel senso comune del termine; è un “creatore musicale” nel senso più pieno, un artista che estende la sua ricerca visionaria dal medium visivo a quello sonoro e letterario. La sua musica, come la sua pittura, non cerca “le rime e la facile narrazione del vivere quotidiano”, ma mira a qualcosa di più elusivo e potente: evocare “l’aura, la potenza di immaginazione, il sentimento profondo”. I suoi testi sono paesaggi dell’anima, densi di riferimenti poetici e filosofici, che si pongono in netta controtendenza rispetto alla musica contemporanea.
La struttura poetica: la trasfigurazione del reale
Analizzando i testi, emerge una struttura costante e rivelatrice: Vespasiani parte quasi sempre da un’immagine concreta, quasi un’istantanea del quotidiano, per poi trascenderla in una meditazione universale e metafisica. In “Luci nella notte”, la scena è ordinaria: le strade affollate per i regali di Natale, una ragazza in fila. Ma questa immagine diventa l’innesco per una riflessione vertiginosa sull’amore come un “passo, sul vuoto”, un ponte tra “due universi distanti e sconosciuti”. La banalità del consumismo natalizio viene trascesa per toccare i temi della fede, del mistero dell’altro e del bisogno umano di “un volto che ci innalzi”. In “Il fascino del luogo”, l’esperienza di entrare in una libreria diventa una metafora dell’esplorazione dell’ignoto. Il luogo fisico, con le sue “assi di legno” e le sue “corsie”, si trasforma in uno spazio liminale dove le persone sono “ferme ma che vagano altrove” e le parole diventano “pulsanti”, capaci di essere “armi” o “foglie” che velano. Questa capacità di vedere il trascendente nell’immanente è la stessa che anima la sua pittura. La sua poetica letteraria non descrive il mondo, ma ne svela le potenzialità nascoste.
La portata letteraria: come l’artista inventa un linguaggio sapienziale
I testi di Vespasiani sono densi di una cultura profonda, che emerge non come citazione, ma come sostanza viva del suo pensiero.
In “I quattro venti”, il linguaggio è potentemente biblico e profetico. Parla di “ultimi tempi”, di “falsari” e di “eletti”, di un “sole oscuro” e di “angeli”. Ma la sua originalità sta nel contrapporre la spettacolarità dell’inganno (“gioco di prestigio”) alla rivelazione del vero, che è un “vento leggero”, un “imprevisto”. La luce di verità, per lui, non è “abbagliante”, ma attenua il suo splendore “per non accecare la vista dei giusti”. È una teologia della delicatezza e della discrezione.
In “Sorridi, esci…”, troviamo un riferimento filosofico di straordinaria precisione. Il verso “una è la fede e l’altra è la ragione con le quali lo spirito umano s’innalza” si ricollega all’enciclica Fides et Ratio di san Giovanni Paolo II, un riferimento inteso non come un semplice omaggio, ma come adozione di un’intera architettura di pensiero, che vede fede e ragione non nemiche, ma come ali necessarie per ascendere alla “contemplazione della verità”. Testi che non sono semplici liriche, ma veri e propri condensati di pensiero sapienziale, che richiedono un ascolto attento e meditativo.
Il confronto con la musica contemporanea:
Il parallelo con gran parte della musica contemporanea, specialmente quella pop, trap o indie che domina le classifiche, evidenzia la radicale unicità di Vespasiani. Mentre il mainstream si concentra su narrazioni di vita quotidiana (amori finiti, successo, denaro, disagio sociale) con un linguaggio spesso colloquiale e diretto, Vespasiani affronta temi universali e metafisici (il mistero, la natura dell’anima, la ricerca del senso. Dove la musica pop cerca la rima orecchiabile e il ritornello ripetitivo, Vespasiani costruisce una prosa poetica libera, che si fonda sul potere evocativo del simbolo e della metafora. Il suo linguaggio è letterario, non “cronachistico”. La musica contemporanea ha spesso una funzione di intrattenimento, di rispecchiamento generazionale o di commento sociale, quella di Vespasiani ha una funzione iniziatica, non cerca “facili sensibilizzazioni”, ma vuole essere “un’arte che apre la coscienza, che spalanca i portali del mistero”, richiede allo spettatore non un’adesione emotiva passeggera, ma un vero e proprio lavoro interiore. Mario Vespasiani si distingue perché la sua musica è un’estensione coerente e necessaria della sua intera poetica, come nella pittura non si accontenta della forma visibile ma ne cerca “l’energia, la sua aura”, così nei testi non si accontenta della narrazione ma ne cerca il “sentimento profondo”, l’archetipo, la risonanza spirituale. La sua originalità sta nell’aver creato un canzoniere che si potrebbe definire a tutti gli effetti “una pinacoteca di paesaggi interiori”. Ogni canzone (sono oltre cento quelle che ha scritto) è un’opera da contemplare, un codice da decifrare, un invito a guardare oltre la superficie del quotidiano per cogliere le vibrazioni segrete del reale. In un panorama musicale spesso dominato dal rumore, la sua è una presenza che, con la potenza della poesia e la profondità del pensiero, invita al silenzio generale, per godere dell’ascolto senza distrazioni fino alla meraviglia della scoperta.