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La galleria di arte fotografica Kromìa presenta la mostra – EXTREME SOCIAL TREATMENT del duo PAOLO CAPPELLI e MAURIZIO CRISCUOLO dello STUDIO F64.

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r.pa centro direz.

NAPOLI – testo critico della mostra ” E.videnza, S.peranza, T.ransito” Incombente, sovrastante, immersiva: urbs-Leviatano di ambivalente lettura, fagocitante o magneticamente seduttiva, rispettivamente di espressionista o futurista memoria, la città che sale e corre piomba con violenza nell’ambiente controllato delle quattro pareti.Ma lo sfondamento spaziale delle gigantografie di Paolo Cappelli e Maurizio Criscuolo, lungi dall’essere decorativo gioco di trompe-l’oeil, è finestra di consapevolezza e confronto ineludibile sul e col reale, analisi e denuncia lucide sui risultati della mala gestione politica e sociale dell’architettura nel tempo. Fedeli al rigore scientifico e conoscitivo che da sempre ne anima l’approccio al mezzo fotografico, gli artisti rendono l’obiettivo affilato strumento di indagine e l’esito, in una sorta di positivistico sperimentalismo alla Zola, esperimento di ricostruzione laboratoriale della realtà per investigare devastazioni ed effetti di ogni scempio architettonico e urbanistico. L’austerità, il “ritorno all’ordine” visivo e nitore assoluto di linee, piani, luci, spazi e monocromo corrispondono con esattezza all’esigenza di addivenire a un fedele report del reale scevro di orpelli deformanti e capace di far erompere, quasi persone, le architetture. Di “riportare”, come dichiarato dagli stessi artisti, “alla bidimensionalità quella che era l’idea originaria dell’architetto, per eternarla nel tempo”, ripristinandone gli originali valori di struttura, visione e concetto e sanando, attraverso il ripulimento di uno sguardo fotografico essenzializzante, le inevitabili compromissioni insite in ogni trasposizione tridimensionale e vissuto d’uso.

I pannelli fotografici in tal modo sviluppano una tensione verso il voler divenire quasi astratti oggetti minimal, presentanti più che rappresentanti il dato concreto. Ed è qui che interviene la frattura della continuità, ad astrarre ancor maggiormente le linee in geometria – aggiungendo oltretutto nuove linee e geometrie reali a quelle distillate dai paesaggi – e la narrazione diacronica in acronica idea. Le cesure assolutizzano, evidenziano il tessuto cartesiano, instillano modularità che accentua il carattere di pannello-oggetto. Allo stesso tempo, però, le fratture introducono nell’infilata senza scampo dell’ineludibile e gigante realismo una boccata di fiato, una breve tregua dalla riconoscibilità, lo spazio per un’inferenza: quel bianco apre all’immaginativo e si fa cerniera tra due mondi, quello sconsolato del reale e quello diverso dell’ipotizzato o, più che mai in questo caso, sperato.

Quasi trittico medievale, il sezionamento ospita la sacralità della consapevolezza del vero, ma soprattutto della speranza di poterne fare qualcosa di migliore, impaginando il Centro Direzionale di Napoli, cerniera a sua volta tra incuria e cura, irrisolvibile dilemma tra apprezzabile esperimento architettonico e scempio paesaggistico. Nella geometrizzazione degli artisti, il triangolo disegnato dalle direttrici delle strade, memore i manifesti costruttivisti russi, diviene freccia simbolica di veloce movimento ambivalente tra costruzione e distruzione. Impeccabile anche la strutturazione in verticale, tripartita e con l’elemento naturale – significativamente – relegato nel terzo superiore, con le materne linee curve del vulcano specchiate e ribaltate, in compiacente o soffocante simbiosi, nell’altra “montagna artificiale” dei grattacieli.

In transito tra evidenza e speranza, osservando l’ambivalenza dell’episodio architettonico e, più ampiamente, del protocollo di estrema terapia sociale – non si sa quanto migliore del male – in cui esso si inserisce, agli artisti non resta che porsi in muta registrazione davanti all’impietosa finestra sul reale o, nella migliore delle ipotesi, in speranzosa contemplazione innanzi al trittico di una speranza in nome della quale accendere il voto della consapevolezza.

di Diana Gianquitto

 

 

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