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“Ne usciremo migliori” e altri falsi miti: quattro anni dopo il primo lockdown per il Covid-19

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“Ne usciremo migliori” oppure “Saremo tutti più buoni”. Sembrava che le persone ci credessero davvero molto in queste frasi. Erano i tempi in cui ci si dava appuntamento per cantare insieme dai balconi. Il periodo in cui il lievito madre divenne introvabile e pare che sugli scaffali dei supermercati, nel reparto pasta, ci fossero solo pacchi di penne lisce. Le persone erano così convinte di quelle frasi che le scrivevano con colori sgargianti sugli striscioni oppure su dei cartelloni da esporre fuori le finestre o sulle ringhiere dei balconi. Erano i tempi delle mascherine, dei guanti nei negozi, dell’Amuchina e degli igienizzanti fatti in casa. Proprio tre giorni fa è stato l’anniversario dell’inizio del primissimo lockdown da COVID-19. Era il 9 marzo 2020.

Quattro anni dal giorno in cui il Governo Conte annunciò il primo di una lunghissima lista di decreti di sicurezza finalizzati al contenimento del contagio. Una ventina di giorni prima, il 20 febbraio 2020, era stato scoperto il famoso Paziente 1 presso Codogno, in provincia di Lodi. Era così scattata la pazza e disperata ricerca del Paziente 0. La cittadina fu circoscritta e sorvegliata militarmente come “zona rossa”. Ormai però era tardi. La diffusione dell’epidemia fu inarrestabile. Inesorabilmente al mondo fu annunciato il terribile stato di pandemia. Ripercorre tutti gli eventi nel dettaglio richiede veramente molto tempo. Ricordiamo semplicemente che dal 9 marzo al mese di maggio per l’Italia fu davvero un arco temporale vissuto da ciascuno in maniera diversa.

Per tutti il primissimo lockdown fu un’esperienza strana. Interruppe — o perlomeno modificò — la quotidianità di milioni di persone senza colpi di esclusione. La frenesia della quotidianità fu sostituita da un’insolita sospensione del tempo. Per molti i ritmi divennero più lenti e dilatati. Qualcuno ha vissuto con insofferenza lo stare rinchiuso in casa. Altri hanno riscoperto se stessi, si sono dedicati alle proprie passioni e ne hanno approfittato per condividere più tempo di qualità con la famiglia. Alla TV trasmettevano le immagini dell’inferno vissuto in corsia dagli “angeli con il camice” e raccomandavano di continuo un lavaggio attento delle mani. I collegamenti online in cui il Presente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava le ultime decisioni divennero momenti imperdibili.

I giovani festeggiavano i compleanni in videochiamata. Gli studenti erano in DAD, la didattica a distanza. Chi poteva iniziò a lavorare da remoto. Le donne si lamentavano della ricrescita dei capelli e dei parrucchieri chiusi. Qualcuno sfruttava le esigenze biologiche del cane per uscire a fare due passi. Altri usavano la spesa come scusa. Se le autorità ti fermavano per strada, dovevi mostrare un’autocertificazione. A un certo punto ci fu bisogno di classificare i rapporti in “affetti stabili” e “congiunti”. Poi ancora mascherine: mascherine in stoffa, mascherine chirurgiche, mascherine FFP2. Mascherine che a distanza di quattro anni alle volte ancora spuntano in qualche borsa o nella tasca di una vecchia giacca. 

L’anno successivo seguì poi l’interminabile susseguirsi di brevi lockdown, fasi rosse, arancioni e verdi. Aperture, chiusure e riapertura. Coprifuochi, restrizioni, tavolini solo all’aperto. Cinema chiusi, teatri chiusi, niente concerti. Il mondo dell’arte in ginocchio. Il Festival di Sanremo con l’Ariston vuoto, la platea senza pubblico. Fase uno, fase due, fase tre… se ne perse il conto. Prima ondata, seconda ondata, terza ondata… Sembrava sempre sempre di essere in alto mare. Poi fu la volta dei vaccini, della loro promozione e degli obblighi. Si inaugurò l’incubo del greenpass e della violazione di innumerevoli diritti sanciti dalla Costituzione italiana. Poi, poco alla volta, ne siamo usciti.

Come in un cielo che torna sereno dopo un forte temporale, le nuvole si sono diradate cedendo il posto al sole. Ma a questo punto il quesito resta: abbiamo ricavato un giovamento dalla terribile esperienza della pandemia? Alla fine siamo diventati veramente migliori come avevamo pronosticato e desiderato? A giudicare dai raccapriccianti fatti di cronaca in Italia e nel mondo, l’umanità non ha imparato un granché sul valore della vita, sull’impatto e sui sentimenti di fraternità. Non solo. Con il Covid non abbiamo imparato la lezione neanche circa l’importanza di una Sanità pubblica salda. Lo dimostrano gli innumerevoli tagli effettuati dai governi in questi anni, la carenza di personale, strutture, farmaci e mezzi pratici un po’ in tutti gli ospedali della penisola.

Per quanto “fare gli anticorpi” resti necessario per l’organismo e l’ossessione non sia mai sana, con la pandemia in moltissimi non hanno appreso nemmeno le più rudimentali norme di igiene. Qualcuno, invece, conserva un trauma e continua a indossare la mascherina anche laddove di fatto non serve. Ne siamo usciti migliori? Non sembra. A distanza di quattro anni è come se avessimo dimenticato già tutto. C’erano giorni in cui desideravamo di nuovo abbracciare gli amici e stringere la mano a una nuova conoscenza. Oggi,  prima di aprire la porta, siamo tornati ad accettarci, attraverso lo spioncino, che non ci sia il vicino sul pianerottolo in modo da non doverlo salutare per poi condividere insieme l’ascensore.

C’era forse una sola cosa che abbiamo imparato con la pandemia del COVID-19, l’unica epifania che ha forse aperto gli occhi alla società del nuovo decennio. Parliamo della riscoperta dell’inestimabile importanza della salute mentale. Rinchiuse tra quattro mura, migliaia di persone sono state a lungo costrette a fare i conti contro i propri fantasmi, le paure più intime, le luci e le ombre della vita. E qualcosa è scattato.

Poco alla volta le istituzioni hanno iniziato ad avanzare la proposta del bonus psicologo. Sempre più voci autorevoli fanno divulgazione sulla depressione e molteplici altri mali — apparentemente invisibili —che possono affliggere lo spirito. Non solo il corpo, ma anche l’anima si ammala. Ed esistono percorsi di assistenza, di cura. La guarigione è possibile, anche quando restano cicatrici più profonde di quelle fisiche. La strada per capirlo è ancora lunghissima, ma almeno adesso se ne parla. Ed è forse questo l’insegnamento più prezioso che la pandemia ci ha consegnato. Un insegnamento da non sprecare.

Di Valentina Mazzella

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